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Recensioni – Giuseppe CARAMUSCIO

L’ultimo Re nel cuore del regno

«Quando si scrive la storia, si dimentica che è la somma di storie di uomini e donne. Ogni tanto, qualcuno, come Angelo Donno, ce lo ricorda». (Pino Aprile, giornalista e scrittore). «L’ultimo Re, il racconto che mancava per capire lo scempio che è stato fatto della nostra storia». (Vito Bruschini, giornalista, regista e sceneggiatore). «Quando uno scrittore racconta la grande Storia, attraverso le vicende personali di personaggi romanzeschi ben costruiti, gli sono grato, perché riesco a capire meglio chi sono e dove mi trovo nel tempo, e insieme a provare le emozioni che ti trasmette la letteratura. Questo è riuscito a fare Angelo Donno nel suo libro L’ultimo Re». (Edoardo Winspeare, regista).

Sono alcuni tra i più autorevoli giudizi formulati sul presente romanzo, il secondo di Angelo Donno, sociologo presso l’ASL di Lecce, che nell’occasione sembra quasi voler combinare la metodologia propria della sua professione con l’uso delle strutture e dei linguaggi del romanzo storico. Forse non è un caso che i pareri sopra riportati provengano da ben noti professionisti della comunicazione, meridionali per nascita o per prossimità affettiva, impegnati in diversi settori della pubblicistica e dello spettacolo. In effetti il lavoro di Donno si colloca in un genere letterario che non conosce crisi, dato il successo che ancor oggi riscuote indipendentemente dal mezzo da cui è veicolato, cinema, fiction televisiva o libro.

A conferma di ciò, l’Autore ha ritenuto opportuno, in sede di presentazione del presente volume, far precedere relazioni e dibattito da due video: il primo finalizzato a documentare i livelli di sviluppo raggiunti dal Regno delle Due Sicilie preunitario – ben lontano dalla consolidata rappresentazione di secolare arretratezza nonché di rifiuto della modernizzazione – il secondo, nel format del cortometraggio, che sintetizza i punti salienti del romanzo. Quanto basta per dire che il vernissage del libro ha costituito un apprezzato evento culturale, degno di un tema che, dapprima in forma sommessa, e negli ultimi anni dai toni progressivamente più animati, non cessa di far discutere. La ricorrenza dei centocinquant’anni dell’Unità ha rinfocolato la disputa intorno alle modalità di annessione del Sud al Regno sabaudo, e in generale sulla legittimità dell’operazione sabauda nel suo complesso, relativamente a quel tempo e agli sviluppi successivi della storia italiana. Tale polemica ha visto scendere in campo un’agguerrita pattuglia di giornalisti, ai quali da un po’ di tempo si sono affiancati gli stessi storici che, nella circostanza, hanno privilegiato spesso la carta stampata quotidiana e periodica quale campo di battaglia, non evitando – in certi casi – di usare termini forti quali “scandalo nazionale”, “rimozione storica”, ecc. Espressioni ritenute ancor più giustificate stante lo stretto collegamento, temporale e causale, fra la conquista del Sud e il grande brigantaggio degli anni 1861-65, a sua volta connotato senza giri di parole come una “guerra civile”.

Indipendentemente dall’accertamento della verità storica che – si sa – postula un cantiere sempre aperto, resta il fatto che per lungo tempo sono stati proprio questi autori e le forme comunicative della letteratura e del giornalismo a sollecitare l’attenzione su un tema volutamente e, in modo manicheo, liquidato come ribellione anti-unitaria, fomentata dalla reazione borbonica e gestita dalla delinquenza organizzata, da condannare in quanto gravemente sacrilega nei confronti dell’Unità appena conquistata. Fra i lavori letterari, il ricordo corre al racconto ? di Verga sui fatti di Bronte o, riferendoci a tempi molto più recenti, ad Amore mio uccidi Garibaldi, romanzo epistolare di Isabella Bossi Fedrigotti, ambientato nel Nord d’Italia, che riscosse un buon successo nei primi anni ottanta del secolo appena trascorso, originale perché spostava l’attenzione sull’universo psicologico degli avversari dell’Unità d’Italia. Da allora sono stati pubblicati non poche opere, eterogenee quanto a tipologia, valore e fortuna editoriale, che hanno messo in discussione la tradizionale ripartizione tra torto e ragione storica, aprendo squarci sempre più ampi (e carichi di vis polemica) sul mondo dei vinti del Risorgimento.

Anche Angelo Donno tiene a precisare, nel Prologo al suo romanzo, quale sia stato l’humus nel quale abbia voluto far nascere e maturare il suo lavoro. Allo scopo sintetizza i punti fondamentali della vexata quaestio, che rappresenta peraltro un altro terreno di confronto-scontro ideologico tra Nord e Sud, fino a essere identificato come uno dei punti nodali di interpretazione dello storico divario.

La trama prende l’abbrivio dalla cittadina natale dell’Autore, Taviano, negli anni immediatamente precedenti il fatidico 1860. Centro salentino di media estensione, caratterizzato all’epoca da un’economia quasi esclusivamente agricola, Taviano fu il luogo, fra l’altro, di una sommossa antiunitaria, limitata nel tempo e nella dinamica. Come accade in altri romanzi che si ispirano al periodo, l’Autore parte dalle vicende private di due umili, Duilio ed Elda, che non possono godere le gioie del loro fresco matrimonio a causa della precaria condizione lavorativa dell’uomo, che ben presto decide di spostarsi a Napoli in cerca di una più stabile e remunerativa occupazione. Ma poco tempo dopo, il giovane muore in seguito a un grave incidente sul lavoro. La giovane vedova, messa alle strette dalla tragedia, affida il figlioletto appena nato al parroco e riesce a trovare lavori presso nobili famiglie che la raccomandano fino a farla entrare nel personale della corte napoletana. Questo fortunato inserimento offre ad Elda non solo una dignitosa autosufficienza economica, ma anche un osservatorio privilegiato dal quale scrutare i frenetici eventi di quella primavera-estate meridionale del ’60. La donna ha appena il tempo di avvertire in sé l’esordio di una nuova storia sentimentale, con Alfonso, giovane aristocratico fedele alla monarchia borbonica, che questi viene incaricato di portare a termine una delicata missione in Sicilia, infiltrandosi tra i Mille per sabotare la loro spedizione con l’eliminazione del loro generale Garibaldi. La conclusione riserva un piccolo ma denso spazio agli aspetti sentimentali, perché culmina con il ricongiungimento di Alfonso ed Elda, in fuga dai rispettivi luoghi di azione, i quali, nel proiettare il loro amore nel futuro, si aprono alla speranza nonostante l’avvenire si prefiguri assai gravido di nubi.

Tutti i personaggi, ben caratterizzati, esprimono una forte carica emotiva, riflettendo le caratteristiche del territorio meridionale e d’altra parte risultano consoni ai canoni di una narrativa dall’impianto romantico ma verista nello stile. Non difficile, quindi, riconoscere nei protagonisti i simboli di un Meridione variegato nella fenomenologia, ma accomunato dalla sua volontà di non arrendersi: nella sua iniziale, breve apparizione, Duilio evidenzia i sintomi del notevole dislivello tra la capitale del Regno e le sue periferie; il suo progetto di emancipazione viene frustrato da una modernità ambivalente, che nella fattispecie assume le fattezze spietate di un macchinario della nascente industria metallurgica che travolge cose e vite umane.

L’Autore affida a Elda il compito di simboleggiare una terra conquistata con la forza e con l’inganno, ma che non perde il coraggio della speranza. Il suo occhio è lo sguardo innocente del popolo sui fatti di una Storia che entra prepotentemente nella vita dei singoli. La donna, armata della sola sensibilità femminile, coglie i dinamismi del cambiamento in atto nel Regno attraverso la voce dell’ultimo re della dinastia borbonica, Francesco II, presso la cui corte lavora e che, conquistato dai suoi modi, le si apre confidandole retroscena e possibili conseguenze degli accadimenti del 1860. In uno di questi momenti fa una fugace comparsa il discusso ministro Liborio Romano, presagio dell’immediata transizione. Non a caso Elda campeggia nell’immagine di copertina: la protagonista appare come inchiodata su un possente portone, di cui si erge a scudo, senza perdere in dignità e forza. La componente legittimista borbonica è impersonata da Alfonso, che vive in diretta, da osservatore nascosto, le varie fasi della campagna siciliana dei Mille, cui l’Autore dedica una robusta parte centrale del romanzo. La formazione di Alfonso è tale da non fargli alimentare dubbi sulla validità morale delle sue scelte, eppure al pensiero del giovane non mancano di affiorare motivi di ammirazione per il capo dei volontari garibaldini come di forte perplessità sul comportamento degli alti ufficiali borbonici.

Ad Alfonso si affianca Alberigo, un giovane parmense, allievo del famoso filosofo Schopenhauer, sensibile, tormentato e generoso, incarnazione dello spirito romantico, che, in controtendenza rispetto alla lezione del suo maestro, decide di impegnarsi nella vita attiva sposando la causa del suo amico Alfonso, condividendone l’intenzione di fermare l’avanzata garibaldina e tutti i rischi che questa comporta. Mancano però, nel romanzo, diretti confronti dialogici tra le parti ideali contrapposte: non troviamo, cioè, dialoghi come quello – celebre – riportato nello scritto del più noto memorialista dei Mille, G.C. Abba, fra l’ufficiale garibaldino e un frate («La libertà non è pane»). Tali parti vengono sostituite dal dialogo interiore che assilla i personaggi più politicizzati del romanzo, cui spetta il compito di avviare percorsi di comparazione e di autocritica in grado di analizzare in modo più oggettivo lo svolgimento dei fatti.

Il romanzo, nei suoi agili 38 capitoli non titolati, alternando sapientemente i due livelli della narrazione, la fedele esposizione delle tappe della spedizione militare all’invenzione delle vicende private dei protagonisti, ci conduce progressivamente, senza eccessivi sbalzi, nel cuore della campagna garibaldina in Sicilia, dallo sbarco a Marsala fino alla conquista di Palermo. L’Autore la narra risentendo talvolta della memorialistica garibaldina, come del capostipite nazionale del racconto storico in stile giornalistico, l’Italia del Risorgimento di Indro Montanelli. Narratore non onnisciente, Donno lascia ai protagonisti e ai loro fitti dialoghi la focalizzazione interna e la funzione di ricostruire i fatti, intervenendo solo là dove occorra sintetizzare processi storici di durata più lunga o per riequilibrare prese di posizione troppo sbilanciate. Equilibrata nelle descrizioni degli ambienti e degli stati d’animo, l’Autore fa ricorso ad una scrittura controllata, che sa fermarsi prima che i toni siano esasperati e che i dinamismi si curvino su un’eccessiva emotività, lasciando così il giusto sfogo all’immaginazione del lettore.

Dal canone della tipologia di romanzo molto diffuso nell’Ottocento, Donno trae l’aspetto primario della formazione dei protagonisti, che nel corso degli eventi riescono a maturare una consapevolezza ben più elevata rispetto a quella iniziale, attraverso la sofferta elaborazione delle sventure personali e collettive. Uno dei pregi più evidenti del romanzo è proprio la capacità di far correre parallelamente la macrostoria e le microstorie, ma a ritmi molto differenti: lento e delicato quando racconta eventi personali, veloce e coinvolgente nella descrizione dello sfondo storico.

Quali le chiavi di lettura del lavoro? Sbaglierebbe chi vi ravviserebbe solo il rimpianto del bel tempo antico o un altro contributo al revisionismo della storia del Risorgimento nazionale. La tentazione della caduta in un meridionalismo rozzo e vittimistico, come abbiamo visto, viene fugata in favore di un modello basato sull’impegno fattivo. Lo stesso Autore, in un’intervista successiva alla pubblicazione, ha chiarito che una lettura attualizzata di quegli avvenimenti può guardare all’attuale processo di integrazione europea, che in realtà, a suo giudizio, non si svolge su un piano di parità tra gli Stati membri, ma vede la volontà egemonica dei Paesi più forti economicamente imporsi sulle aree più deboli, scaricandovi i costi dell’unificazione e i problemi del momento, analogamente a quanto accadde, a suo giudizio, nel 1860, con l’attuazione del progetto espansionistico del Regno di Sardegna.

Le considerazioni finali di Donno sul quadro internazionale appaiono legittime, guardando al contesto europeo della seconda metà dell’Ottocento. All’epoca l’operazione politico-dinastica della espansione del Regno di Sardegna non poteva riuscire positivamente se ad avallarla non vi fossero stati rilevanti interessi internazionali (in particolare inglesi), ormai ben accertati. Né sono pochi gli storici accreditati, dentro e fuori il mondo accademico (pensiamo a Roberto Martucci con il suo L’invenzione dell’Italia unita – Rizzoli, 2007, 3ª ediz.), che concordano nel ritenere molti i punti ancora da chiarire intorno alla conquista del Regno meridionale. Anche i manuali di Storia in uso nelle scuole hanno gradualmente ospitato voci dissenzienti dalla tradizionale lettura del nostro processo di unificazione nazionale, mettendole pariteticamente a confronto con le interpretazioni avverse.

Il Risorgimento italiano è in effetti processo troppo intricato perché possa essere soggetto a semplificazioni da parte dei suoi detrattori o degli apologisti: i fenomeni storici, complessi per loro natura, aborrono le schematizzazioni. Ben vengano comunque quei lavori, come il presente, che mantengono desta l’attenzione sulla storia del nostro Sud, soprattutto nella consapevolezza di quanto è accaduto in quest’ultimo secolo e mezzo senza trascurare le prospettiva futura. Il lettore competente de L’ultimo re pertanto dovrà assumere un duplice punto di vista, quindi: letterario e storiografico. Chiaro, fluido, gradevole il primo; più complesso e foriero di dibattiti il secondo.


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